I perdenti

Losing the GameParlare al cuore e al cervello, mentre la gente ha il baricentro nel ventre.

Pensare che possa mai diventare maggioritaria una visione solidale della società, mentre qui ognuno pensa a se stesso.

Voler diventare migliori, mentre tutti aspirano a diventare più ricchi o più forti.

Onore ai perdenti, a chi si schiera sempre dalla parte sbagliata, a chi invece di salire sul carro del vincitore viene schiacciato dalle ruote nella polvere.

Quando sono debole, è allora che sono forte. (2Cor 12,10)

Commenti

Anonimo ha detto…
Ahime' i visitors hanno vinto di ben piu' di un punto.
Non ho commenti.... forse pero' erano meglio questi
ciao
mawayne ha detto…
si può esser perdenti pur avendo vinto sentendosi traditi da quello in cui si è creduto o si è amato fino a pochi istanti fà.. l'amarezza è grande come il mare che si credeva di poter navigare con mezzi di fortuna.. sembra quasi di naufragare in un luogo che non si conosce..finchè un giorno ti svegli e ti accorgi che è stato solo un brutto sogno..
Pierangelo ha detto…
riporto da l'Unità del 19.5.2008:

Noi, sconfitti, facciamo come Gramsci

Stralci dell'intervento di Nichi Vendola, raccolti da Giovanna Nigi

Serve un nuovo spirito con cui affacciarsi alla nostra storia, per costruire una nuova storia di solidarietà: non è vero che una volta caduti ci si possa solo rialzare, si può andare anche più in profondità, facendosi ancora più male, come ha fatto Rifondazione Comunista.

Io mi ribello contro le scorciatoie e nel dolore, sia pubblico che privato, vedo l’occasione per fare due scelte completamente diverse. E il mio pensiero va alla morte del fratello di Bertinotti e a Fausto che in questo momento sta piangendo sia la sua morte che l’abbandono della sua parte politica. La prima scelta possibile è quella di un ripiegamento rancoroso, di un cinismo che mira a chiudersi, la seconda è quella di prendere una lente di ingrandimento per vedere di più e meglio.

Penso che le ragioni della sconfitta non possano essere cercate nel tempo corto dell’ultimo biennio. Certo, la tenaglia del voto ci ha schiacciato, ma se non avessimo accettato la sfida unitaria del governo saremmo stati travolti. Noi speravamo nel secondo tempo, Rifondazione era la garanzia che dopo il risanamento dei conti pubblici ci sarebbe stato il momento dell’aiuto verso le fasce più deboli: la raccomandazione che ci veniva dal nostro popolo era proprio questa, quella di resistere in attesa di questo secondo tempo, che purtroppo non è mai arrivato.

Io mi sento una persona molto sconfitta e per questo mi sono fermato a pensare alla persona più sconfitta del Novecento, Antonio Gramsci. Gramsci fu sconfitto tre volte: la prima fu teorica, qundo diversamente dalla sua tesi, l’avvento del comunismo arrivò in una società non avanzata industrialmente come quella russa. La seconda fu l’isolamento da parte del suo partito (…), la terza nel dolore privato, lontano dagli affetti. E mi sono chiesto: cosa fece Gramsci davanti a queste sconfitte? Scrisse i Quaderni dal carcere, che erano il tentativo di rispondere alla domanda sul perché abbiamo perso. E Gramsci trova le ragioni della sconfitta nel reducismo, nell’egemonia culturale, in tutti fattori contingenti: il suo pensiero si allarga, arriva gli Stati Uniti, arriva a chiedersi cosa è cambiato con la catena di montaggio, nella vita anche privata degli operai?

Io non cito Gramsci come santino, ma lo cito per lo stile intellettuale che ha saputo usare nella sconfitta. La nostra sconfitta è a Ponticelli. La cronaca nera sa dire molte più cose della cronaca politica per capire il clima e gli umori di una paese. La cronaca nera mi fa rabbrividire. Lo scorso anno dei ragazzi hanno torturato un down: nel video si possono distinguere il pianto disperato del ragazzo, le risate dei suoi torturatori e il silenzio dei più bravi, che continuano a studiare nel loro banco. E sono loro i peggiori, quelli che non parlano e continuano a fare i bravi ragazzi. Da lì ai doppi roghi della Campania, doppia opera di igiene della camorra, il passo è breve.

È sul lungo periodo che dobbiamo ritrovare le ragioni della sconfitta. Una, è il ritardo nel capire la periferia: Gramsci per capire le ragioni della sconfitta ha dovuto studiare Benedetto Croce. Oggi la destra ha vinto perché ha dato delle risposte ideologiche al problema della sicurezza, illuminata dai fantasmi del pianerottolo e dal ritorno di tutte le antiche figure che hanno sempre criminalizzato la povertà. E la sinistra che ha offerto in cambio? La Lega dava aiuto al vecchietto, al giovane, li faceva sentire al riparo di una comunità, parlava la loro stessa lingua.

Questo ha avuto presa perché oggi sono saltate tutte le forme di comunità. Non c’è più Di Vittorio, non c’è più Cipputi, non ci sono più i vecchi operai che aiutano i giovani. Oggi c’è solo la precarietà che ha operato una mutazione profonda. Che senso ha dire torniamo nei posti di lavoro come se fossero rimasti sempre come li abbiamo lasciati? Che conoscenza abbiamo dei precari? Il nostro deve essere un lavoro di grande umiltà, di riconoscimento che oggi gli operai sono diversi da quelli di un tempo, anche i ricercatori universitari oggi sono operai. Dobbiamo liberarci dalla nostra spocchia e sarà un lavoro duro. Bisogna fare propria la lezione delle donne che ci hanno insegnato a partire da sé. Un tempo il partito era un pezzo del territorio ma dagli anni Settanta tutto è cambiato: enormi periferie programmate scientificamente senza piazze, ghetti mostruosi che impedivano dei rapporti di comunità. Le periferie sono state create apposta così, e la maggior parte delle giovani generazioni ha sviluppato una cultura nomade nel mangiare, nel ballare, e in tutto quello che fa. Questo è un tema decisivo per capire la sconfitta, la nuova conformazione della città. E un’altra è la crisi della famiglia, non solo nelle sue implosioni nevrotiche, ma nella sparizione di una delle tre generazioni che fino a trent’anni fa costituivano la famiglia. Oggi sono stati espulsi i nonni e le nonne, i bambini non sanno dire che lavoro facevano i nonni e non ascoltano più le loro storie, forse per questo otto bambini su dieci dicono che il loro maggiore problema è la solitudine.

Tre piste di ricerca, tre oggetti di analisi per trovare la ragione del nostro senso di smarrimento: in basso e in alto, da nord a sud, la destra parla una lingua unificata, noi parliamo un dialetto che sta diventando incomprensibile.

Noi abbiamo il problema di sopravvivenza di un mondo a rischio, si vince quando si è credibili agli occhi di chi vuole cambiare. Che vogliamo fare dopo la sconfitta, cercare un cielo di stelle fisse? No, per me il comunismo non è una risposta, è una domanda, e i miei alleati sono tutti quelli che vivono processi di liberazione. Per questo mi batto per il diritto alla vita di tutti, a cominciare da quello del mio avversario. Con Gramsci ritengo che l’avversario lo devi conoscere nella sua verità interna. Basta con l’icona del nemico che ci ubriaca e offusca i nostri sogni. I mezzi cattivi hanno inquinato le alte finalità, è importante scegliere il mezzo con cui lottare, perché il fine non lo giustifica. E come faccio a capire il mondo se non faccio mie anche storie diverse? Per prime quelle delle donne che un linguaggio criminale ha voluto accomunare al termine “uomini” per dire “uomini e donne”: abbiamo bisogno di questo, di una cultura di ambientalismo perché il buco della testa è anche il buco dell’ozono, e viceversa. E c’è chi pensa ancora che vita e bellezza siano solo dei vincoli.

Bisogna partire dalla differenza e dalla diversità: i rom ci dicono che abbiamo sempre bisogno di capri espiatori per sentirci al riparo. Donne, rom, gay, poi tutti gli altri. Come costruire un nuovo mondo se non ci arricchiamo delle differenza? Dobbiamo ripartire dall’idea che il mondo si può cambiare solo se troviamo un punto di contatto tra politica e società. È ancora una volta Gramsci a dire che per cambiare la società si deve stare dentro la politica e la società. Quindi non un esodo, non un rimanere chiusi nel palazzo, né scioglierci nel sociale. Né l’uno né l’altro, tutte e due le cose insieme: restituire alla politica la sua forma, che è quella di una bussola.

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