C'è di mezzo il mare

Ripropongo a distanza di quasi un anno un mio "pezzo" scritto per Fuoriregistro. Mi ci ritrovo ancora e forse può essere la base per una buona programmazione per il nuovo anno che non vedo l'ora di incominciare.

"Tra il dire e il fare, c'è di mezzo il mare": la saggezza popolare ben esprime quel senso di frustrazione che ci pervade nello sperimentare quanto sia difficile realizzare in pratica idee sia pur giuste, sia pur condivise.

Un lampo appare nel cielo e tu aspetti aspetti, ben sapendo che la teoria va alla velocità della luce mentre la pratica va alla velocità del suono, eppure il tuono, con il suo fragore liberatorio, non arriva mai.

"Se potessi mangiare un'idea avrei fatto la mia rivoluzione" cantava disincantato Gaber e spesso vedo negli occhi degli studenti lo stesso disincanto di uno che si chiede se quello che gli proponi è poi in fondo "qualche cosa che si mangia". Qualche cosa che si mangia non inteso nel senso che debba avere necessariamente un risvolto utilitaristico (qualche cosa che dà da mangiare) o possa rientrare nel novero dei beni economici da comprare vendere o barattare, ma nel senso più profondo di qualche cosa che serve alla vita, che mantiene in salute, che dà piacere, che unisce le persone, che fa diventare grandi. Lo sguardo di sfida di quello studente interpella dapprima me, perché a lui importa eccome che quello che gli trasmetto sia stato prima di tutto qualcosa che si mangia per me e qui penso a quel gesto meraviglioso delle mamme che svezzano i bambini premasticando esse stesse il cibo solido e poi introducendo il bolo con le mani nella boccuccia del figlio.

Forse troppo poco abbiamo riflettuto sulle parole di Paolo VI: "L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni". Testimoni vuol dire che "ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi" [1Gv 1,1.3], eppure sono passati trent'anni e continuiamo a fare soltanto i maestri.

Il Libro mistico per eccellenza si rivela in realtà assai più pragmatico di quanto ci si possa aspettare. Il succo del motivo per cui Dio è Dio e l'uomo è uomo sta proprio nella distanza temporale tra parola e azione, tra ideazione e realizzazione, che nel caso di Dio è annullata: "Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu." [Gn 1,3]. E se addirittura "il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" [Gv 1,14] davvero da quelle parti dire e fare sono sinonimi e chi dice e chi fa sono un tutt'uno. Se ci pensiamo un po', per noi credenti la risposta agli interrogativi posti da Gaber sta nel significato che diamo alla Comunione, quando allora sì che "mangiamo un'idea", anche se questo troppo spesso non ha comportato purtroppo la conseguenza pratica di "fare la mia rivoluzione".

"Uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede." [Gc 2,18]. Ci si lamenta spesso di una diversa intelligenza delle nuove generazioni, attratte dal tattile e dall'audiovisivo, ma incapaci di sostenere il ragionamento speculativo "puro", considerato da molti quello sì come la cultura di serie A, quella cosa che viene ritenuta tanto più utile ed eccelsa quanto più non ha alcun legame con la realtà esistenziale delle persone. Dopo ci si meraviglia che in fin dei conti nel sentire comune l'intellettuale venga considerato come un alienato sulla sua torre d'avorio ed anche come un mangiapane a tradimento.

Ben sappiamo dall'esperienza che a nulla valgono i sermoni motivazionali in cui presentiamo principi astratti, perché, se è avvenuta per noi la crisi delle ideologie, dobbiamo prendere atto ed anzi rallegrarci che le generazioni successive abbiano un'innata avversione per tutto quello che sembra ideologico. Con Ligabue constatiamo che le ricette dall'alto e dall'esterno lasciano il tempo che trovano già in noi e quindi non ha senso approcciare così un adolescente che ben puo risponderti: "Ho messo via un po' di consigli dicono è più facile li ho messi via perchè a sbagliare sono bravissimo da me.". E qui è che ti devi inserire: dare la possibilità di sbagliare in un ambiente protetto quale può essere una scuola intesa come laboratorio della vita, dove gli sbagli non sono mai irreparabili, ma anzi sono un'opportunità per rifasare il tiro e raggiungere per raffinamenti successivi quella sapienza di vita che è poi il fine ultimo della cultura e della conoscenza.

Quindi, se l'insegnante resta l'uomo del dire, è facile che anneghi tra i flutti di quell'oceano che separa il dire dal fare. Troppe lezioni frontali, troppo ripetetemi quello che ho spiegato con le stesse parole mie, troppa scienza senza esperimento, troppo cervello senza mano ma anche senza cuore.

Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco. Un detto attribuito a Confucio che ribalta la concezione del maestro come trasmettitore del Sapere con la Esse Maiuscola, invitandoci piuttosto a farci co-sperimentatori, compagni di un viaggio in cui si parte dal sensibile per poi interpretarlo alla luce dell'esperienza individuale e collettiva.

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